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Le sottoculture giovanili degli anni ’90: che fine hanno fatto?

di Redazione
 
sottoculture giovanili copertina oasis

Gli anni ’90 sono stati il momento di massima fioritura delle sottoculture giovanili, aggregazioni e comunità che si pongono come alternativa alla cultura dominante e si rendono identificabili grazie a un codice estetico comune e alla passione per lo stesso genere di ispirazione musicale, letteraria e cinematografica.

Dai Gabber agli Emo, passando per il movimento BritPop, ripercorriamo la storia e i lati distintivi di tre delle principali sottoculture degli anni ‘90.

I Gabber: la deriva hardcore della techno

Il movimento dei Gabber, sottocultura che nasce dal genere musicale hardcore (sfumatura più distorta e aggressiva della techno), nasce in Olanda negli anni ’90 per merito della contaminazione inglese.

Quando i rave party made in UK si diffusero nella terra dei tulipani, attraverso dei party targati London comes to Amsterdam, il genere Acid House raggiunse un’enorme popolarità tra i più giovani, che presero d’assalto i club più esclusivi alla ricerca dello sballo estremo. Ben presto questo stile prese piede prevalentemente tra i ragazzi provenienti dalle aree periferiche, segnando una netta contrapposizione con i coetanei più “fighetti” del centro. Questo antagonismo regionale trovò spazio anche in ambito calcistico, con i giovani ravers tifosi del Feyenoord Rotterdam, principale rivale dell’Ajax, che intonavano i loro cori ancora sotto l’effetto dell’adrenalina da after party.

A questa subcultura vennero frequentemente associate immagini negative, correlate all’uso della violenza, a un consumo massiccio di droghe e alla vicinanza a gruppi di estrema destra, per quanto gli stessi Gabbers non si identificarono mai in nessuna ideologia politica.

Forse proprio per queste ragioni il movimento iniziò il suo declino già nei primi anni 2000 e ad oggi resta un vago ricordo di quei giovani dalle teste rasate, con indosso tute e polo con il marchio ben in vista, e ai piedi le Air Max della Nike.

Il BritPop: la proposta musicale che cambiò il volto del panorama inglese

Emerso in uno dei periodi peggiori della storia contemporanea inglese, il BritPop, etichetta con cui la carta stampata britannica definì il movimento nato nel 1992, si qualifica come una tra le sottoculture di maggior impatto per la discografia mondiale.

In un Paese alle prese con uno scenario del tutto inedito, travolto dalla crisi economica e dall’eclissarsi della lunga era Thatcher, la gioventù anglosassone cercò di tradurre in musica gli ideali e le intenzioni patriottiche che sembravano ormai perse. È in questo quadro che si affermano band del calibro degli Oasis, i Blur, i Suede, i Verve, i Pulp, gli Stereophonicse i Radiohead. Molti di questi artisti parlano di una realtà sociale condizionata da enormi disparità e cercano di rivendicare la loro libertà di espressione e il senso di rivalsa.

Le sfide a suon di Gibson tra i Blur e i fratelli Gallagher, l’approccio più glam offerto dai Suede, l’attitude funk della band di Different Class, sono solo alcuni degli esempi delle sonorità emerse da questo periodo d’oro. Proprio per le caratteristiche eterogenee di questo fenomeno culturale è difficile delineare i contorni che, musicalmente parlando, contrassegnarono questo vasto genere, ma è possibile dire che la maggior parte dei testi proposti da questi gruppi aveva come obiettivo quello di analizzare il contesto storico in corso.

A seguire le orme di questo genere ci sono oggi i Coldplay, per quanto gli intenti prettamente socio-politici siano sfumati fino a diventare quasi (o del tutto) assenti.

Gli Emo: la variante sensibile del rock

Questa sottocultura nasce negli USA sul finire degli anni ’80 ma esplode in Italia e in Europa a cavallo tra gli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio. La cultura musicale Emo mescola allo stile rock l’elemento emotivo, divenendo una sorta di variante più introspettiva e mitigata del punk.

Resa commerciale grazie ai continui passaggi nelle emittenti televisive che trasmettevano in rotazione i video musicali, questa subcultura musicale diede modo di esprimersi a tutti quegli adolescenti fino a quel momento schiacciati dai modelli imposti dai gruppi dominanti, che si sentirono così liberi di dar voce in maniera autentica al loro lato più sensibile. I tratti caratteristici dello stile Emo, androgino e minimale, sono i lunghi ciuffi che vanno a coprire gli occhi, rigorosamente truccati di nero, le t-shirt e le camicie larghe, i jeans strettissimi e le Vans o Converse ai piedi.

Tra i pionieri di questo genere troviamo indubbiamente i My Chemical Romance, la rockband americana di Welcome To My Black Parade, vero e proprio inno per i giovani Emo.

Chi non ricorda poi i Tokyo Hotel, la band tedesca capitanata dai gemelli Tom e Bill Kaulitz, che con il tormentone Monsoon (2007) è riuscita a monopolizzare le radio di tutto il mondo. 

Tornando dall’altra parte dell’oceano non possiamo non citare i Fall Out Boy, la band nata nei sobborghi di Chicago che ha sfornato successi come I Don’t Care (2008) e Immortals (2014), singolo usato nel trailer del film di animazione targato Disney Big Hero 6Impossibile non citare poi i Paramore, gruppo che ha virato verso uno stile più pop ma che è rimasto nel cuore di un’intera generazione anche grazie al singolo Decode (2008) – colonna sonora del primo film della Twilight Saga – e alla graffiante voce della leader Hayley Williams.

Molti tra i gruppi musicali sopra citati sono ancora in attività e di una cosa siamo certi: in futuro non mancheranno nuove produzioni musicali derivanti da questa corrente.

Sottoculture giovanili degli anni ’90: eredità non sempre raccolte

Le subculture giovanili che hanno spopolato negli anni ’90, le comunità di ribelli che hanno saputo indirizzare i consumi prima ancora che il termine influencer entrasse nel nostro vocabolario, hanno oggi subito una netta trasformazione.

Quelle che si presentavano come alternative alla cultura dominante, in opposizione alla cosiddetta “massa”, sono riuscite in alcuni casi a diventare dei fenomeni totalizzanti.

Tuttavia, gli elementi comuni che generavano un unico senso di appartenenza tra i giovani di tutto il mondo, geograficamente distanti ma legati dallo stesso linguaggio stilistico, risultano attualmente più difficili da riconoscere ed etichettare. 

Ai giorni nostri, infatti, con l’avvento dei social network e la cassa di risonanza che ne deriva, la libertà di espressione ha raggiunto livelli mai visti e risulta perciò più complicato tracciare i confini di quelle che potremmo definire delle “sottoculture pure”, dei generi inscatolati in pochi segni distintivi.

Così, se negli anni ’90 il divario tra le subculture dei sobborghi e le comunità dell’upper class emergeva in modo netto, oggi questo scenario, perfettamente narrato ad esempio in Fight Club (1999), risulta meno evidente e più segmentato.

Anche per questi motivi, il panorama cinematografico e musicale si ritrova a prendere spesso spunto dalle contaminazioni del passato, sapientemente rivisitate, e fatica a trovare modelli originali.

E se il movimento BritPop ci riserva ancora qualche sorpresa – vedi l’annuncio del nuovo disco degli Stereophonics – i look più estremi proposti dai Gabbers old school sembrano ormai archiviati.