Spedizione gratis a partire da € 90

Wish You Were Here: perché la sua cover ha fatto la storia?

di Redazione

Non sta a noi stilare una classifica dei migliori dischi di una band, ma sicuramente non andiamo lontano dalla realtà dicendo che Wish You Were Here rappresenta uno dei momenti più alti della carriera dei Pink Floyd, insieme a The Wall e The Dark Side of the Moon. Ma cosa li accomuna, oltre a essere gli album di maggior successo e fama della band inglese?

Come spesso accade, dischi che hanno fatto lo storia sono accompagnati da copertine altrettanto memorabili. Nell’articolo di oggi continuiamo il nostro viaggio alla scoperta delle copertine più iconiche di sempre con quella di Wish You Were Here, un album che compie 50 anni, celebrati con un cofanetto deluxe disponibile sul nostro sito.

I temi principali di Wish You Were Here.

Quando nel 1975 i Pink Floyd pubblicarono Wish You Were Here, non offrirono soltanto un nuovo capitolo musicale, ma un vero e proprio affresco emotivo. L’album ruota intorno a tre grandi assi: l’assenza, la disillusione e il ricordo. L’assenza è il filo conduttore che lega ogni brano, sia in senso personale che collettivo. Da un lato c’è la ferita ancora aperta di Syd Barrett, l’amico e fondatore del gruppo che aveva perso sé stesso tra fragilità psicologica e abuso di droghe. La lunga suite Shine On You Crazy Diamond è il tributo struggente a quella perdita: un saluto che non smette mai di vibrare. Dall’altro lato, l’assenza riguarda il rapporto tra i membri stessi della band, ormai logorati dal peso del successo dopo The Dark Side of the Moon, incapaci di ritrovare la complicità degli esordi.

Accanto a questo, l’album mette in scena la rabbia nei confronti dell’industria musicale. “Welcome to the Machine” fotografa un mondo spietato, dove l’artista viene inghiottito da ingranaggi impersonali. In questo brano, l’apertura con la porta automatica non è casuale: è il suono di un ingresso forzato in una realtà fredda e disumana.

“Have a Cigar”, con il suo tono sarcastico e la famosa battuta “Which one’s Pink?”, ironizza sull’ignoranza e l’avidità dei discografici, sempre pronti a trasformare i musicisti in macchine da soldi. La band si sentiva trattata dalle case discografiche come una macchina per produrre denaro, non come artisti.

Da qui l’idea di rappresentare, nella cover, il business come un gesto vuoto, una stretta di mano che poteva costare cara. “Bruciarsi” era l’espressione usata dai musicisti per indicare chi, tra contratti e diritti, finiva per perdere tutto. La metafora prese corpo nelle fiamme che avvolgevano lo stuntman Ronnie Rondell, trasformando una scena quotidiana in un simbolo eterno.

La title track, Wish You Were Here, chiude il cerchio con un messaggio più intimo: non è solo un grido rivolto a Barrett, ma anche un dialogo con sé stessi, con il bisogno di autenticità che Roger Waters sentiva soffocato dalla macchina dello show business. L’album si conclude tornando a Shine On, come se l’intero viaggio fosse un loop di memoria e malinconia. Non stupisce che molti fan e critici lo considerino il lavoro più toccante dei Floyd: un disco che trasforma ferite personali e amarezza collettiva in un capolavoro senza tempo.

Dietro quell’icona si nascondeva però una critica feroce al mondo della musica.

La genesi di un capolavoro visivo

Quando i Pink Floyd pubblicarono Wish You Were Here il 12 settembre 1975, non fu soltanto la musica a scrivere la storia: la copertina ideata da Storm Thorgerson e dallo studio Hipgnosis divenne un manifesto visivo di rara potenza. Thorgerson aveva passato mesi accanto alla band durante il tour del 1974, discutendo con loro dei testi e dei temi del nuovo album. La parola che tornava più spesso era “assenza”: l’assenza di Syd Barrett, ormai perso nei meandri della sua mente, ma anche l’assenza di sincerità e autenticità nell’industria musicale. Da questa riflessione nacque l’idea di un’immagine capace di trasmettere un senso di vuoto e allo stesso tempo di rischio.

La prima intuizione di Thorgerson fu quella di rendere “assente” la copertina stessa, confezionando l’album in una busta di plastica nera, un’idea che ricordava il cellophane verde usato dai Roxy Music per Country Life. L’etichetta americana tentò di opporsi, ma invano: la confezione restò, accompagnata da un adesivo ideato da George Hardie con due mani meccaniche che si stringono, ispirato ai brani Welcome to the Machine e Have a Cigar. Ma Hipgnosis non voleva fermarsi al simbolismo grafico: il gesto della stretta di mano doveva diventare realtà.

Il set fotografico fu allestito nel parcheggio degli studi Warner Bros a Burbank. Due stuntman – Ronnie Rondell, morto lo scorso agosto, e Danny Rogers – indossarono completi ignifughi e si strinsero la mano mentre uno di loro prendeva fuoco. Non fu uno scatto semplice: in primo luogo, solitamente gli stunt, nelle scene con le fiamme, non restavano fermi, proprio per evitare di far propagare le fiamme, in secondo luogo, il vento rese la situazione più pericolosa del previsto e Rondell uscì dall’esperimento con baffi e sopracciglio bruciati. Dopo 15 scatti, il risultato, però, superò ogni aspettativa. A completare il mosaico visivo, il retro dell’LP mostrava il misterioso “Floyd Salesman”, un rappresentante senza volto, mentre all’interno comparivano un velo agitato dal vento e un nuotatore che si tuffa senza muovere l’acqua: immagini enigmatiche che proseguivano il tema dell’assenza.

Wish You Were Here: un trionfo che dura da 50 anni (celebrato con un’edizione speciale)

Se la musica del disco conquistò subito pubblico e critica, l’artwork non ebbe un impatto minore. Quando la copertina venne svelata negli studi di Abbey Road, l’intera squadra di tecnici e collaboratori esplose in un applauso: segno che il colpo di genio di Thorgerson e Powell aveva colpito nel segno. Il successo commerciale fu clamoroso: più di 20 milioni di copie vendute, primo posto in classifica sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti, e l’ingresso definitivo dei Pink Floyd nell’Olimpo delle band leggendarie. Ciò che rese unica questa copertina era la sua forza concettuale: non c’era bisogno di scrivere “Pink Floyd” o “Wish You Were Here” in grande sulla cover. L’immagine parlava da sola, diventando subito riconoscibile.

Wish You Were Here, è un album senza tempo, che non può essere semplicemente contestualizzato storicamente, perché la sua forza è quella di trattare temi universali, validi sempre. Un disco potente, che dopo mezzo secolo non passa certo di moda. Anzi, per il cinquantenario della sua pubblicazione, si è pensato di dar vita a un’edizione speciale (davvero speciale), un cofanetto deluxe con molte novità che lasceranno a bocca aperta anche i fan più appassionati. Ma vediamo di cosa si tratta:

  • 6 versioni alternative e demo inedite dell’album
  • Blu-ray con:
    • Mix in Dolby Atmos realizzato per la prima volta da James Guthrie
    • 25 tracce bonus, di cui 9 rarità in studio e 16 registrazioni live tratte dal concerto del 26 aprile 1975 alla Los Angeles Sports Arena, registrate dal bootlegger Mike Millard e pubblicate ufficialmente per la prima volta, con tanto di audio live restaurato e rimasterizzato da Steven Wilson
    • 3 filmati da schermo del tour 1975
    • 1 cortometraggio di Storm Thorgerson
  • 2 CD con:
    • Album originale
    • 9 bonus track in studio
  • 4 LP in vinile trasparente:
    • Album originale
    • Bonus track
    • Live At Wembley 1974 (esclusiva del cofanetto)
  • Replica del singolo giapponese 7” di Have A Cigar con Welcome To The Machine sul lato B
  • Libro cartonato con fotografie inedite
  • Fumetto del tour
  • Poster del concerto di Knebworth

Wish You Were Here è diventato fonte di ispirazione per generazioni di artisti, che hanno reso omaggio a quell’immagine. Due uomini che si stringono la mano mentre uno di loro brucia: un gesto semplice trasformato in una delle icone più potenti della storia del rock.