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Quattro classici horror in edizione Steelbook

di Redazione
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L’horror è un genere particolare, a molti piace, ad altri meno. Ma di certo non si può dire che non abbia prodotto capolavori: in ambito letterario, da Poe a Lovecraft fino a Stephen King, l’horror si è emancipato dall’etichetta di “subcultura”. Una volta poi inventato il cinematografo, quello tra l’horror e la settima arte è diventato un connubio più che fortunato.

Facendo un salto indietro nel tempo, oggi scopriamo insieme quattro classici del cinema horror, in uscita il 14 ottobre in edizione SteelbookDracula di Tod Browning (1931), L’Uomo Lupo di George Waggner (1941), Frankestein di James Whale (1931) e, sempre dello stesso regista, L’Uomo Invisibile (1933).

Dracula di Tod Browning (1931)

Passano gli anni, ma Dracula rimane sicuramente il vampiro più famoso della storia (con buona pace dei fan di Twilight). Il romanzo di Bram Stoker ha avuto numerose reinterpretazioni cinematografiche, ma quella di Tod Browning del 1931, di cui ricorrono i novant’anni, è sicuramente un grande classico. Il film è il primo adattamento con il sonoro, introdotto solo pochi anni prima. Bela Lugosi, che aveva già interpretato il ruolo a teatro, impersona il Conte Dracula, vampiro che dalla remota Transilvania arriva in Inghilterra, nutrendosi del sangue delle sue vittime, compresa la fidanzata di un giovane avvocato.

La pellicola riscosse subito un enorme successo di critica e di pubblico, incassando 700.000 dollari, record al botteghino della casa produttrice Universal per quell’anno.

Se oggi immaginiamo il Conte Dracula avvolto da «un nero mantello» e «coi bianchi e affilati canini» (come recitava una famosa canzone di Bruno Martino), ma anche elegante e, perché no, affascinante, lo dobbiamo proprio all’iconica interpretazione di Lugosi, così lontana da quella del Nosferatu di Murnau, in cui appariva come un mosto quasi deforme.

Con Dracula Browning e Lugosi hanno contribuito a fissare nell’immaginario collettivo l’immagine del più famoso vampiro di sempre.

L’Uomo Lupo di George Waggner (1941)

Di licantropi se ne è sempre sentito parlare: presenti in miti, leggende e storie di folclore, fanno parte della tradizione popolare da secoli. Ma è con il cinema che si ha la vera “fortuna” di queste creature maledette. Pensiamo ai numerosi lungometraggi che ne hanno fatto delle star cinematografiche: da Underworld a Van Helsing, da Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis a Wolf – La belva è fuori.

Uno dei primi film sonori con protagonista un licantropo, interpretato in questo caso da Lon Chaney Jr., è stato L’Uomo Lupo di George Waggner, di cui ricorrono gli ottant’anni. Prodotto sempre dalla Universal, che inaugurava in quel periodo il cosiddetto «ciclo dei mostri», il film è diventato una pietra miliare del cinema horror, un’imperdibile tappa per chi si avvicina al genere, grazie soprattutto all’uso perfetto delle musiche, al trucco di Jack Pierce e al lavoro dello sceneggiatore di origine ebraica Curt Siodmak, che a Hollywood aveva trovato rifugio dopo la fuga dalla Germania hitleriana. È a lui che dobbiamo la nota poesia «Anche l’uomo che ha puro il suo cuore, ed ogni giorno si raccoglie in preghiera, può diventar lupo se fiorisce l’aconito, e la luna piena splende la sera», metafora di una bestia che è in tutti noi e puoi venir fuori in ogni momento.

Frankenstein di James Whale (1931)

Cosa dire di più di quello che già sappiamo su Frankenstein? Tutti abbiamo letto, o almeno studiato, il capolavoro di Mary Shelly Frankenstein o Il moderno Prometeo, romanzo sulle ambizioni di un giovane scienziato di riportare in vita la materia.

Il film di James Whale del 1931, che segue la corrente espressionista degli anni ‘30, era stato affidato inizialmente a Robert Florey, passando poi nelle mani del regista britannico, che si immerse anima e corpo nel progetto della Universal, connotando il mostro di maggiore spessore psicologico. Il film fu un successo al botteghino e riscosse anche elogi dalla critica: tutt’ora è considerato un vero e proprio capolavoro.

Nel film lo scienziato Henry Frankenstein (il nome originale Victor era stato cambiato per venire incontro ai gusti del pubblico americano) è interpretato da Colin Clive, mentre Boris Karloff impersona la sua “creatura”, dimostrando una dedizione completa al progetto: si pensi che l’attore arrivò a farsi estrarre un ponte dentale per poter ritirare meglio la guancia all’interno, conferendo così al personaggio un aspetto ancor più inquietante.

Il trucco, gestito anche in questo caso da Jack Pierce, è uno degli aspetti più notevoli del film. La maschera fu modellata direttamente sui lineamenti di Karloff: grazie a questo meticoloso lavoro, l’arcata sopraciliare sporgente, le marcate ombreggiature sotto le palpebre (sempre socchiuse grazie all’applicazione di protesi di cera) e gli elettrodi sporgenti dal collo sono diventati ormai caratteristiche imprescindibili per chiunque, a Halloween o a Carnevale, voglia travestirsi da Frankenstein (passato nel senso comune a identificare la “creatura” e non lo scienziato).

L’Uomo Invisibile di James Whale (1933)

Tratto dall’omonimo romanzo di H.G. Wells, da cui si differenzia per alcuni aspetti, racconta la storia dello scienziato Jack Griffin (impersonato da Claude Rains), che, conducendo esperimenti con una sostanza chiamata monocaina, scopre il segreto dell’invisibilità: da quel momento viene pervaso da un senso di onnipotenza, che lo trasforma in un omicida. Il ruolo era stato inizialmente offerto a Boris Karloff, che, dopo un primo assenso, rifiutò la parte.

Vedendo il film ci viene da chiedere: ma come fecero, a inizi anni ‘30, a rendere l’effetto dell’invisibilità? La domanda è lecita, perché non avevano certo a disposizione gli strumenti di oggi. Il risultato visibile – anzi invisibile – nel film è frutto del lavoro di John P. FultonJohn J. Mescall e Frank D. Williams. A Rains fu fatta indossare una tuta di velluto nero, che lo copriva interamente, inclusa la faccia: inizialmente venivano effettuate le riprese su uno sfondo nero, poi si inquadrava il set senza l’attore, e infine le due riprese venivano unite con la tecnica del matte painting. Fulton realizzò un particolare pavimento, con porzioni a forma di piedi che si potevano abbassare o alzare a comando, per dare l’impressione di un uomo invisibile che si muovesse su un terreno innevato.

Anche Rains, come Lugosi e Karloff, fu sottoposto a un trucco intenso (sempre di Jack Pierce) e dovette affrontare delle trovate non proprio confortevoli per una performance artistica: si pensi che la copertura del suo volto avveniva tramite un elmetto particolare, che oscurava totalmente la visuale dell’attore, collegato a dei tubi nascosti nei calzoni che gli permettevano di respirare. E pensare che Rains soffriva di claustrofobia (e infatti fu utilizzato più volte uno stuntman).

L’Uomo Invisibile fu accolto all’epoca con grandi apprezzamenti, tra la critica e il pubblico, diventando il film horror di maggior successo della Universal dopo Frankenstein.